IL DILUVIO RACCONTO DISTOPICO

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IL DILUVIO

(Come immaginare il peggio e apprezzare il presente)

Si affaccia alla finestra e vede che piove. Sono mesi che piove. Anni. Nemmeno più ricorda da quanto tempo piove.

Guarda dalla finestra e vede che l’acqua è arrivata al sesto piano della casa di fronte, ma non sa quanto tempo ha impiegato per salire fino a lì, ha perso il conto: ormai il sesto è completamente sommerso, l’acqua è arrivata al balcone del settimo piano. Deve fare attenzione a quanto tempo impiega per arrivare al piano superiore, deve segnarsi la data, perché la memoria ormai le fa difetto: confonde i giorni, le settimane, i mesi e si segna gli appunti su pezzi di carta, va a consultarli per ricordarsi. Per fortuna la bambina dorme ancora.

Di tutto l’appartamento, che è di quattro stanze e servizi, lei vive con la figlia in una stanza, perché le altre tre e lo sgabuzzino li ha riempiti di provviste quando hanno detto che stava incominciando il diluvio, e tutti si sono messi in fila davanti ai supermercati per portare a casa le scorte per gli anni a venire. All’inizio nessuno ci credeva: i soliti allarmisti, dicevano, poi, man mano che la pioggia non cessava e i fiumi incominciavano a straripare, la folla si accapigliava per comprare ogni cosa.

Quando c’era ancora suo marito e la bambina era più piccola, avevano riempito tre stanze di scatoloni pieni di provviste: cibo, sapone, carta igienica e detersivi, libri per passare il tempo quando radio e TV non avrebbero più funzionato.

Quando si resero conto che sarebbero mancati anche il gas e la corrente elettrica comprarono stufe, candele e legna: una stanza intera piena fino al soffitto di legna, per scaldarsi d’inverno. Acqua, riempiendo secchi e bacinelle, ce n’era in abbondanza .

Erano giorni di panico, quelli, quando ancora ci si muoveva per le strade, prima con mezzi privati e pubblici e stivali al ginocchio, poi con i natanti, cercando in tutti i modi di svuotare i piani rialzati, i pompieri con le idrovore, gli abitanti con i secchi e i tubi da giardino.

Ora l’acqua è arrivata al sesto piano dei palazzi. E’ marrone, unta, ci galleggia di tutto, dai mobili ai cadaveri, alle piante, agli animali morti. Lei vede passare sotto la finestra il rottame di un pullman, il n° 43. Più in là la carcassa di un cane scheletrito. L’odore è insopportabile: di benzina, di sporcizia, di putrefazione, di morte. Chiude la finestra. Affronta le giornate e gli anni in solitudine, con la bambina che languisce d’inedia e dorme quasi tutto il giorno. Anche lei dorme spesso, per sognare. Sognare è il solo sfogo, l’espediente per vivere un poco come prima, almeno con la mente. Per viaggiare, parlare e interagire con le persone vive e quelle morte.

Suo marito è morto per cercare di dare una mano: all’inizio tutti speravano che si potesse arginare il disastro. Con i passi che hanno fatto la scienza e la tecnologia, dicevano, non è possibile lasciare che la pioggia estingua la razza umana. Ce la misero tutta, e morirono in molti, tentando.

Ha letto tutti i libri, ormai. Li ha riletti, non avendo altro da fare. D’inverno fa buio presto, le candele scarseggiano, e quand’è buio non resta che dormire.

La bambina si fa sempre raccontare di quando ancora non c’era l’acqua fuori, e si poteva camminare per le strade, andare nei ristoranti e nei negozi. Le sembrava un mondo favoloso, mai esistito. Ci credeva soltanto quando le mostrava le illustrazioni dei libri e delle riviste, gli album di fotografie. Ammirava le macchine, i vestiti, le spiagge, la gente che ballava, i ragazzi che giocavano nei giardini pubblici e diceva:

“Torneremo a fare queste cose, mamma? Pensi che torneranno?”

“Quando smette di piovere”, risponde.

Ormai non ci crede più, che smetterà. Non ha notizie del resto del mondo. Pensa che nelle città dove ci sono grattacieli di trenta piani o più, il livello dell’acqua in basso appaia ancora molto lontano, ma non sa quante provviste possano ancora avere, e, in ogni caso, anche a loro mancano il gas e la luce elettrica e la TV e Internet e vivono come in un limbo, aspettando che cessi la pioggia, oppure di affogare, prima o poi.

Gli inquilini dei piani superiori si trincerano nei loro appartamenti, dietro le porte blindate come casseforti, non aprono a nessuno per non dividere le loro provviste di cibo, legna e fiammiferi, sperando di sopravvivere più a lungo. Lei pensa che quelli del sesto piano, e prima quelli del quinto, al sopraggiungere dell’acqua siano usciti in cerca di salvezza, ma l’acqua fosse ovunque, ormai, di sotto. Pensa che siano saliti, già sapendo di dover stare fuori, e adesso aspettino acquattati sui pianerottoli e le scale dei piani superiori, nei sottotetti, come barboni, avviluppati in cappotti e trapunte, forse vecchie pellicce, raccogliendo l’acqua piovana sui balconcini, consumando le ultime provviste.

Sa che, quando finirà il cibo, moriranno. Non prova pena, il cuore si è indurito, ormai non le resta che aspettare il proprio turno. Chi è fuori é fuori e chi è dentro è dentro: è questa, ormai la legge. 

La bambina si agita nel sonno, si lamenta. Ha la febbre. Anche la scorta di medicine è finita, eppure ne aveva comprate tante, soprattutto Aspirina, analgesici, antibiotici. Finiti. Ha le labbra secche, le guance in fiamme. Va al secchio e le rinfresca il viso con uno straccio intriso d’acqua piovana e strizzato. E adesso?

Le camere che erano piene di provviste sono ormai quasi vuote, i mobili bruciati per scaldarsi. Cerca negli scatoloni vuoti, ammonticchiati, li butta a destra e a manca, rovista il fondo, apre tutte le borse per vedere se è rimasta ancora un’Aspirina, una qualsiasi pillola. Trova soltanto inutili assorbenti igienici, che allora le sembravano indispensabili, mentre ora sa che bastano gli stracci, che sono tanti. Solo stracci, acqua e spazio inutile.

Al nono piano abitava un dottore. Ci abita ancora? E’ vivo? E comunque, le conviene aprire la porta, affrontare il pianerottolo, le scale?

La bambina ora scotta, delira. Bisogna per forza rischiare e provare a chiamare il dottore, sempre che ci sia.

Esce, sul pianerottolo non c’è nessuno. Sulle scale, nessuno. Sono tutti morti chiusi nei loro appartamenti, senza nemmeno cercare la salvezza per qualche mese in più? Sale al piano di sopra. Nessuno.

Bussa alla porta del dottore. Non aprono. Normale, lei stessa non ha mai aperto, quando hanno bussato. Insiste, chiama:

“Dottore, mia figlia sta male!”, grida.

Le risponde il silenzio. Piange, singhiozza, ma la porta rimane chiusa.

Ridiscende le scale piangendo. Non importa, tanto moriremo tutti, pensa, forse è meglio così: tanta sofferenza in meno, se muore lei muoio anch’io. Chi ha detto che devo aspettare che l’acqua salga? Posso semplicemente buttarmici dentro, o scegliere qualche altro modo, per andarmene con la bambina. Magari, anzi, di certo, qualunque sogno o il nulla sono meglio di questa vita.

Nessuno ha tentato di entrare in casa, nessuno è davanti alla porta. Apre le cinque mandate della serratura e la bambina, sul letto, pare già più tranquilla. Ha ancora la febbre, ma dorme immobile.

Si accorge che c’è una luce strana nella stanza. Una luce che non ricordava. Si volta verso la finestra e nota uno squarcio nella solita coperta di nuvole scure. Gli occhi, ormai abituati al buio o al crepuscolo perenne, rimangono offesi dal raggio di sole.

Sole? E chi più lo ricorda? Guarda il cielo e ancora non ci crede, poi guarda in basso e constata che è vero: non piove più.

Un commento riguardo “IL DILUVIO RACCONTO DISTOPICO

  1. Sarà per il periodo che stiamo vivendo, ma questo racconto mi ha angosciata. Mi sono detta: “Ci mancherebbe soltanto più questo”. Per inciso : io abito al primo piano!
    Poi il ritorno del sole mi ha dato speranza anche per il nostro presente.

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